lunedì 31 agosto 2020

ZONA UNO - COLSON WHITEHEAD


Gli zombie stanno vivendo una seconda giovinezza, tanto da aver attirato l’attenzione dei grandi gruppi editoriali italiani che dopo aver snobbato il genere per anni, stanno provando a cavalcare l’onda. Una di queste case editrici è Einaudi, che ha pubblicato di recente il romanzo di Colson Whitehead Zona Uno, storia di Mark Spitz, un sopravvissuto che fa parte delle squadre di civili che lavorano nella zona sud di New York, nel tentativo di renderla sicura dagli zombie dopo una prima “pulizia” a opera dei marines. 
In quarta di copertina, Einaudi tiene a precisare che Whitehead «prende il genere horror, ne distrugge gli schemi e ci restituisce un affresco allucinato e preciso di New York», peccato soltanto che di tutto ciò nel libro non ci sia nulla, visto che di horror se ne parla soltanto in una manciata di pagine e questo famigerato affresco newyorkese non è altro che l’ennesima descrizione di una metropoli in rovina, già letta in decine di altri romanzi e vista in altrettanti film. 
Nonostante il talento innegabile dell’autore, Zona Uno annoia dalla prima all’ultima pagina, tradendo ogni promessa, visto che la storia è la solita (un gruppo di sopravvissuti che cercano di ricostruire zone sicure dagli zombie, salvo poi capitolare sotto l’irrefrenabile forza dei morti viventi), i personaggi sono alquanto banali, a partire dal protagonista Mark Spitz che da «tortuoso, fosco e confuso» si trasforma in un anonimo sopravvissuto, e la vicenda non aggiunge nulla a quanto già raccontato in tema di apocalisse zombie. Se per Einaudi è sufficiente ribattezzare gli zombie “schel” o aggiungere i cosiddetti “ritardatari”, una sorta di morti viventi catatonici, per distruggere gli schemi dell’horror, gli consigliamo un corso accelerato di narrativa di genere, tenuto magari da autori italiani. 
Zona Uno è un fallimento a trecentosessanta gradi, un romanzo che non avvince e non appassiona, che si perde in infiniti e inutili ricordi di una vita passata, e che, ancora una volta, dimostra l’approccio snob da parte delle grandi case editrici verso il genere horror, talmente “temuto” da volerlo riformulare in qualcosa che, alla fine, delude tutti, appassionati e non. Whitehead scrive fiumi di pagine raccontando eventi superflui all’economia della storia, che si trascina verso il finale più banale e scontato, ostaggio di un freno che le impedisce di trasformarsi in ciò che sarebbe dovuta essere: una novella apocalittica in cui gli uomini, come al solito, non ne fanno una giusta.

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